La rinascita di un quartiere: un’opera caravaggesca

FRUTTA, VERDURA, SCARPE, pentole di rame: un brulicare incessante di gente, con i motorini a sfiorare i passanti e su i panni stesi, tra la testa delle persone il cielo. Nella via che racchiude il rione Sanità, dove i turisti si tengono strette le borse, c'è il mercato 365 giorni all'anno. Fuori, una volta, c'era la campagna: ora ci sono un centinaio di negozianti furiosi con De Magistris perché il piano Ztl del centro storico penalizza le vendite. Sono solo una trentina i metri che separano l'elegantissima via Duomo dal quartiere più popoloso di Napoli, quello con la maggiore densità di giovani e anche di delinquenza. Qui i vicoli si fanno stretti e impervi, bui, scivolosi. Il cuore pulsante di una città contraddittoria, bella. Una città instabile. Come la sostanza solida contenuta in due ampolle che la tradizione afferma essere sangue di san Gennaro, e che si liquefa tre volte l'anno davanti agli occhi di tutti i cittadini. Come la sua posizione geografica, tra il Vesuvio e i Campi Flegrei, una vasta area di origine vulcanica a nord-ovest, e la sua storia costellata di invasioni, guerre e rivoluzioni. Instabile nel suo stesso tessuto, umano e architettonico: nel ventre della città ci sono passaggi segreti, cisterne, catacombe, per una superficie complessiva che supera i 600 mila metri quadrati. «Prima dell'uso del calcestruzzo armato, il materiale per la costruzione delle case napoletane era il tufo, giallo e friabile, la stessa pietra del sottosuolo». A spiegarlo è Giuliana Mazzara, guida turistica e socia della cooperativa Rione Sanità, creata da un gruppo di amici che ha deciso di valorizzare culturalmente e socialmente il quartiere, innanzitutto restandoci a vivere. «Proprio il tufo, un materiale povero e poco solido, ha reso le strutture più elastiche. Precarie, ma incrollabili. C'è un palazzo che ogni anno gira su se stesso di tre millimetri. Esiste anche una vera e propria mappatura delle voragini sotterranee, si consulta prima di comprare casa». A che serve? «A niente, casa la prendi lo stesso. Però lo sai. Poi, andrà come andrà». In via Vico Castrucci c'è Patrizia Flammia, direttrice di un centro di solidarietà. Il palazzo è immenso, di proprietà dei Frati Vincenziani. Appena si varca la soglia sembra di entrare in un altro mondo, silenziosissimo, illuminato, spazioso. C'è un grande cortile interno, oltre 400 stanze riservate agli studenti fuori sede, e soprattutto un doposcuola per i bambini, laboratori di cucina e di ceramica. «Vedendo il via vai di studenti, i ragazzini dalla strada hanno iniziato a incuriosirsi. "Jamm' a vedè". Bambini che con una smorfia da adulto ci apostrofavano: "Mbè? Chi è il capo, qui?". È iniziato tutto da lì, da quel bussare alla porta». Dal bisogno di trovare un punto fermo in mezzo al caos. Vent'anni dopo, il centro si autosostiene con l'aiuto dei volontari e degli ex alunni. Quando possono le madri dei bambini che frequentano il doposcuola danno una mano con le pulizie e si è creata una catena di solidarietà che si espande giorno per giorno: «Non voglio che mio figlio sia come me, aiutatelo». Chi prima riceveva il pacco fornito dal Banco Alimentare della Campania, poi insiste per consegnarlo ad altri. «Ci hanno convinto che dobbiamo farci assistere e noi stiamo al gioco. Ma così perdiamo l'anima». Riassume secoli in una frase Titina, che fa la sarta in nero. Ha iniziato mandando al doposcuola i suoi figli e ora si accosta a tutti come se facessero parte della sua famiglia: «Mio marito dice che mi sono fissata, con loro. Ma io non posso rinunciare, mi sento bene». Tonino Romano, uno dei fondatori della cooperativa, parla di «un'umanità ferita, ma con un'anima grande». Che lentamente passa dalla disperazione alla fiducia, dalla fiducia alla speranza. La priorità è evitare facili eroismi e tenere i piedi ben piantati a terra: «Siamo un fenomeno popolare, vogliamo solo vivere la realtà mettendoci in gioco come persone, in tutto e per tutto, essere protagonisti della nostra città». E così si riparte. Dai piccoli segni, come Antonio, nove anni, che dice: «A scuola non vado, ma al doposcuola sì». Il ponte della Sanità attraversa il quartiere, dopo corso Amedeo di Savoia. È qui che passano i pullman carichi di turisti: si sporgono a sbirciare, dall'alto al basso, mentre qualcuno col microfono avvisa che da quelle strade è bene stare lontani, "Very dangerous". È una linea di demarcazione culturale, che ghettizza. E rende l'esterno odioso: sono tanti, quelli che dal rione non vogliono nemmeno uscire. Elina Romano gestisce un centro di aiuto allo studio per i ragazzi del liceo (Portofranco): una struttura che è diventata un punto di ritrovo per tutte le età. «Lunedì, mercoledì, venerdì... Starai mica diventando un secchione?», scherza con Davide, mano per la mano col papà. Qualche mese fa c'è stata una serie di rapine negli stabili attorno: praticamente in tutti. Tranne uno, "incomprensibilmente" rispettato. All'istituto paritario Sacro Cuore, in tutt'altra zona e utenza, Mario Del Verme racconta con orgoglio delle iniziative che ruotano attorno alla sua Polisportiva. «Quando a scuola si legge una poesia uno dice: "che bella!" perché aiuta a scoprire una parte di sé. Nello sport c'è esattamente la stessa dinamica: accadrà qualcosa, un guizzo, un passaggio ben riuscito, un'azione ben condotta a permettere lo stesso riconoscimento». Nei campi di calcio si decide della crescita non solo fisica, «ma anche educativa, emozionale, psichica, sentimentale e culturale delle persone». Per questo, quando la Fondazione Milan calcio ha scelto di finanziare la costruzione di un campo di calcetto («perché la vostra amicizia è appassionante») è stato deciso di farlo sorgere a Poggioreale, uno dei quartieri considerati più a rischio. Per favorire l'aggregazione tra i più giovani e tenerli lontani dalla strada. C'è un'immagine che descrive ciascuna di queste iniziative. E lo fa da quattro secoli. È un olio su tela conservato al Pio Monte della Misericordia di Napoli. L'ha dipinto quel Michelangelo Merisi da Caravaggio che il cardinal Federico Borromeo descriveva come «di sozzi costumi», uno che «non fece mai altro che rappresentare i tavernieri, i giocatori, le zingare che leggono la mano, i facchini e gli sgraziati che di notte dormivano nelle piazze, ed era l'uomo più contento del mondo quando poteva dipingere un'osteria. I suoi costumi somigliano ai suoi lavori». Fuggito da Roma dopo essersi macchiato di un omicidio, alla fine del 1606 il pittore ripara a Napoli, nei quartieri spagnoli. Ed è qui che quell'artista turbolento e assassino viene scelto per realizzare un dipinto che rappresentasse lo spirito dell'opera benefica messa in piedi da sette giovani nobili napoletani, che sull'onda di un diffuso senso di umana solidarietà verso le necessità di una popolazione costituita in gran parte da poveri e bisognosi decisero di svolgere attività di carità cristiana ispirandosi alle opere di misericordia corporale del Vangelo di Matteo. «Non potevano sapere che il loro impulso sarebbe sopravvissuto sino ad oggi», sorride Gianpaolo Leonetti, sesto di undici figli di un'antica ed illustre famiglia napoletana, che del Pio Monte della Misericordia oggi ricopre la carica di sovrintendente. L'associazione ha resistito alla storia grazie a un pragmatico gioco di equilibri che consente una gestione del tutto trasparente: i sette "governatori", ciascuno dei quali si occupa di mettere in pratica un'opera di misericordia, si scambiano i compiti ogni tre mesi. «Le opere di misericordia di Matteo non sono applicate in maniera ferrea - spiega Leonetti. Rispondono, volta per volta, ai mali dei tempi. Fino alla metà del Settecento, per esempio, ci siamo occupati di liberare gli schiavi catturati dai pirati saraceni. Oggi le attività istituzionali dirette dal Pio Monte si concentrano nell'aiuto diretto alla popolazione più misera, attraverso l'esercizio della beneficenza, con asili e orfanotrofi».
Tutti i vicoli in quel quadro
In questo nuovo corso rientra l'incontro con iniziative di terzi, anche attraverso la concessione di immobili a titolo gratuito. Come è accaduto per la Cooperativa Rione Sanità. Non solo. Dato che il Pio Monte è anche proprietario e custode di un immenso patrimonio di opere d'arte pittoriche, archivistiche e architettoniche, sta per partire una casa delle arti e dei mestieri, con corsi gratuiti rivolti ai ragazzi per riscoprire le nicchie di artigianato ad alto livello che nel tempo sono state perse: dai guanti ai paramenti sacri, passando per le bambole e l'arte presepiale. «C'è una perfetta aderenza tra il nostro spirito e la splendida carnalità con cui Caravaggio ha reso immortale la nostra associazione», osserva Leonetti. Nella parte superiore, a osservare la scena, c'è la Madonna con Bambino, accompagnata da due angeli. Le loro ombre si riflettono sulle mura della prigione, a indicare una presenza concreta e terrena. L'opera "seppellire i morti" è raffigurata sulla destra con il trasporto di un cadavere di cui si vedono solo i piedi. "Visitare i carcerati" e "dar da mangiare agli affamati" sono concentrati in un singolo episodio: quello di Cimone, che condannato a morte per fame in carcere, fu nutrito dal seno della figlia. "Vestire gli ignudi" appare sulla parte sinistra, nella figura di un giovane cavaliere (san Martino) che fa dono del mantello ad un uomo dalla posa michelangiolesca ritratto di spalle. Sempre a san Martino è legata la figura dello storpio nell'angolo a sinistra, emblema del "curare gli infermi". "Dar da bere agli assetati" è rappresentato da un uomo che beve da una mascella d'asino, Sansone, perché nel deserto bevve l'acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore. "Ospitare i pellegrini": è riassunto da due figure: l'uomo in piedi all'estrema sinistra che indica un punto verso l'esterno, ed un altro che per l'attributo della conchiglia sul cappello (segno del pellegrinaggio a Santiago de Compostela) è facilmente identificabile con un pellegrino. I personaggi non vengono rappresentati ben vestiti, ordinati all'interno di una corte, bensì in un vicolo popolare di Napoli. Non è difficile allora cogliere le somiglianze con le strade in cui quel gruppo di amici presta ogni giorno un po' del suo tempo. C'è un motto in latino, sull'antica sede del Pio Monte della Misericordia: «Fleunt ad eum omnes gentes». A lui correranno tutte le genti. Magari anche in ordine sparso.
Di Chiara Sirianni - Articolo pubblicato sul numero 46 della rivista settimanale "Tempi"

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