“Facciamo un pacco alla camorra”

“Credo nello Stato, nei carabinieri, nella polizia, nella Guardia di finanza e nel corpo Forestale; credo nei giudici, nella Direzione nazionale antimafia e nella Direzione distrettuale antimafia, credo nell'intero apparato della magistratura e in tutte le istituzioni della Repubblica italiana, dalla Regione ai Comuni fino al più piccolo consiglio di circoscrizione; credo che la camorra sia una montagna di merda e i mafiosi degli scarafaggi che scacceremo uno a uno”.
Antonio Picascia da Sessa Aurunca snocciola il suo “Credo” tutto d'un fiato, come se volesse liberarsi di un peso che gli torce lo stomaco. Sei mesi fa Picascia, jeans e maglietta nera inzuppata di sudore con la scritta “I feed the chance”, (alimento il cambiamento, Ndr) recitava il suo Credo anticamorra nel piazzale della sua fabbrica di detergenti piantata nel cuore delle terre che furono dei casalesi e ora sono intitolate a don Peppe Diana, il prete di Casal di Principe ucciso a sangue freddo da due killer nel marzo del '94 mentre si preparava a recitare messa.
 Attorno a Picascia c'erano un centinaio di scout dell'Agesci che partecipavano ai campi scuola organizzati da Libera e i suoi 35 operai ancora con gli abiti da lavoro. La fabbrica, la Cleprin, con i tetti accartocciati dalle fiamme appiccate dolosamente questa estate, restituiva il clima del conflitto ingaggiato contro la camorra da Picascia e dal suo amico e socio Franco Beneduce. Che diceva: “L'incendio alla nostra fabbrica è l'avvio della campagna di raccolta delle estorsioni che la camorra organizza tre volte l'anno: Natale, Pasqua e Ferragosto”. Con Picascia e Beneduce alla camorra di Sessa Aurunca dei clan Esposito e Di Lorenzo è andata sempre male. Così com' era andata male un venerdì di gennaio del 2007, quando l'ingegnere capo del Comune di Sessa Aurunca si presentò con un amico al Bar Italia '90, sul rondò dell'Appia che collega Caserta a Roma: “È ‘nu bravo ‘uaglione, assumetelo” disse l'ingegnere capo a Picascia e Beneduce.
Quel bravo ragazzo era il fratello del boss. E alla risposta negativa dei due imprenditori, il dirigente del Comune propose un altro appuntamento per il lunedì successivo, questa volta alla Cleprin: “Pensateci durante il fine settimana” disse ai due soci con il tono di chi fa un'offerta che non si può rifiutare. Il lunedì mattina l'ingegnere capo si presentò con un paio di guaglioni di scorta. Questa volta la richiesta fu meno allusiva: “Le nostre polizze sono più sicure di quelle delle assicurazioni Generali”, ripetevano .
Nemmeno un minuto dopo essersi congedato, Picascia corre in auto verso la stazione dei carabinieri. Un mese dopo gli emissari dei clan bussano di nuovo alla Cleprin: “Non volete assumere Di Lorenzo? Allora pagate la tangente”. Nuova denuncia e per i quattro bell'imbusti scattano le manette. Patteggiano una condanna per tentata estorsione e minacce e dopo pochi mesi tornano a spasso. Potrebbe essere solo un brutto presagio. Le acque si chetano e la Cleprin ricomincia a macinare risultati; nuovi clienti e tre stelle di legalità, un rating che per i due soci vale un firmamento. Ma la ritorsione è pronta a scattare: in piena notte un autocompattatore della nettezza urbana scarica tutto il suo percolato nel piazzale dell'azienda. È un messaggio in codice: la camorra non dimentica.
Picascia e Beneduce, sempre con accanto l'inseparabile figlio di 11 anni, Benito, dal giorno dell'incendio sono sotto scorta. Ormai i due imprenditori, loro malgrado, sono i protagonisti del cambiamento. E aggregano movimenti, associazioni, i rappresentanti del forum per l'agricoltura sociale (che prevede l'inserimento nelle aziende dei disabili, gli ex tossici. alcolisti o ex detenuti), e le coop riunite attorno alla Nco, che non è la nuova camorra organizzata di don Raffaele Cutolo ma la nuova cooperazione organizzata e il nuovo commercio organizzato, un reticolo di imprese che promuove prodotti etici.
Nasce così “Facciamo un pacco alla camorra”. In gergo napoletano fare il pacco significa imbrogliare, piazzare una cosa fasulla. In questo casi si tratta invece di un pacco pieno zeppo di tutti i prodotti che arrivano da terreni confiscati alla camorra: pasta di Gragnano, verdure sott'olio, bottiglie di vino e marmellate, conserve, pomodori pelati, cestini artigianali. Un modo intelligente e a buon mercato (il pacco grande di 50 euro è già esaurito, quello piccolo costa invece 12 euro) per alimentare il circuito di imprese anticamorra e magari fare un bel regalo di Natale. Lo stesso movimento di popolo che ogni estate con l'aiuto di Libera organizza in provincia di Caserta decine di campi scuola per la legalità. L' incendio provocò danni per oltre 2,5 milioni. “Il lavoro di una vita andato in fumo” diceva Picascia, ex agente di commercio che ha macinato migliaia di chilometri in auto prima di mettersi in proprio.
Per mostrare quanto il movimento dei “partigiani del bene” fosse vicino agli imprenditori casertani, dopo l'incendio arrivarono nel piazzale della Cleprin i protagonisti di questo piccolo miracolo. Una mobilitazione dal basso nelle terre del “Credo” di Antonio Picascia e del “partigiano” Valerio Taglione che arringava i suoi con le parole del parroco di Casal di Principe trucidato dai casalesi: “Dobbiamo risalire sui tetti e annunciare parole di vita”. Gli scout dell'Agesci, con gli occhi stropicciati dalle commozione, intonarono come un mantra la canzone “I cento passi” dedicata a Peppino Impastato: ma la tua vita adesso puoi cambiare/solo se sei disposto a camminare/gridando forte, senza aver paura/contando cento passi lungo la tua strada/e allora uno, due, tre, quattro, cinque, dieci, cento passi.
Articolo pubblicato su ilsole24ore.com

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