La vera sfida è accendere il desiderio nel cuore dei ragazzi

di Serafino Drudi
Lui sa tutto sulla droga perché sa molto sul desiderio annidato nel cuore dei ragazzi. Non lo si può paragonare alle figure di riferimento nella guerra alla tossicodipendenza perché è profondamente diverso da loro. Ad esempio, tanto per citare due personaggi mediaticamente più conosciuti, da don Oreste Benzi e da Vincenzo Muccioli. La sua originalità viene a galla nell’incontro e risulterà molto chiara nel corso di questa conversazione. E poi è un coetaneo di chi scrive ed è stato anche un compagno d’università e proprio a Urbino ha iniziato a conoscere amici che facevano uso di droga e che cercava di aiutare a smettere. Adesso a Pesaro Silvio Cattarina (nella foto) è padre di una comunità terapeutica educativa per minori non solo tossicodipendenti ma che hanno già avuto a che fare con la legge. Sta attraversando il quarto di secolo di attività: iniziò infatti con don Gianfranco Gaudiano il primo ottobre 1990 a Gradara. Poi nacquero “L’Imprevisto”, il Centro diurno, la comunità femminile “Tingolo per tutti”, le case di reinserimento, la coop sociale “Più in là”. In questa comunità negli anni sono passati oltre un migliaio di ragazzi recuperati dal baratro in cui, per la droga o l’angoscia del cuore indurito, erano caduti. Abbiamo incontrato Silvio Cattarina per capire il suo approccio al tema della droga, cosa pensa delle discoteche e della chiusura del Cocoricò, delle comunità di recupero e del rischio della dipendenza dai leader e dai metodi in esse impiegati. Ma soprattutto per capire i ragazzi di oggi.
Hai detto che la tua comunità non è nata ‘per uscire dalla droga’? Allora per cosa?
“Ai ragazzi che spesso rilevano quanto sono voluti bene in comunità dico: chiedetevi perché vi vogliamo così bene, perché più interessante ancora è lo scoprire perché siamo al mondo e se c’è una cosa per cui valga davvero la pena vivere, impegnarsi, lavorare, studiare… I ragazzi che sono qua sono sì anche sfortunati, per le cose successe, per i drammi subiti, per mancanze e fallimenti vari però, come tanti giovani non vedono che nel mondo qualcuno li chiama. Non si sta male anzitutto per ciò che ci accade ma perché si pensa di stare su questa terra inutilmente: una nostra ragazza disse un giorno ‘mi sono sempre sentita data per scontata’. Bellissimo. Non siamo stati catapultati in questa terra ‘inutilmente’. Per noi lo stare in comunità facendo il lavoro di riflessione di lavorare su se stessi, di giudizio sulla realtà, è un grande lavoro finalizzato a scoprire davvero il perché ci siamo”.
Tu ripeti spesso che non vorresti che i ragazzi dalla comunità passassero dalla schiavitù della droga ai ‘ceppi’ della Cattarina-dipendenza…
“Il punto è veramente quello che chiedo ai ragazzi: passare da un tipo di dipendenza che concentra attenzione e iniziativa su una cosa che alla fine risulta deludente, ad accogliere e abbracciare tutta la realtà. C’è chiusura e impaccio di fronte alla realtà, moltissimi ragazzi che approdano qua non si alzano più al mattino ma lo fanno solo verso il pomeriggio inoltrato, in modo che non ci sia bisogno di decidere, tutto è già deciso per te e la giornata è quasi finita così ‘t’inventi’ la ‘tua’ realtà. Se ti alzi al mattino, un po’ i conti con la realtà sei costretto a farli e devi in qualche modo assumerti qualche responsabilità. Vorrei dire che il ‘padrone’ delle persone è il cuore. Qui non lavoriamo sul passato e l’analisi di quanto è successo, sulle sostanze stupefacenti, ma sul desiderio del loro cuore che è poi anche il mio desiderio. Io anzitutto non penso a loro ma al bisogno di vita che ho io. Cioè la cosa più interessante che c’è qua è il ‘mio’ cuore con tutto il desiderio grande che esprime di vita, di felicità, di giustizia. Per questo dico ai ragazzi quello che faccio anch’io: cercare su questa terra qualcosa o qualcuno che ci ha sempre cercato e voluto e venendoci incontro ci abbracci e ci dica ‘Io posso risolvere tutti i problemi che ha il tuo cuore’. Il dramma della droga, la sua logica estrema e cattiva è che fa credere alle persone che la soluzione a questo desiderio di vita sia dentro di sé. Per questo i giovani immettono tante sostanze nel loro organismo per costruire una sorta di ‘risposta fai da te’. Ma la risposta viene da fuori. Nella bibbia si legge: ‘La salvezza viene dagli ebrei’. La risposta non viene dalla propria ‘intimità’ come pensa forse uno ‘psicologismo’ oggi molto in voga: la ricerca interiore, l’analisi dei fenomeni, la spiegazione delle cause. Intendiamoci, anche noi facciamo questo, ma più che altro bisogna aprire gli occhi su quanto c’è nella realtà”.
Qualche esempio del vostro metodo?
“Il nostro metodo è di riflessione: abbiamo due incontri al giorno, incontriamo tante persone. Chiediamo ai ragazzi di prepararsi anche scrivendo per rispondere alle osservazioni degli operatori. Quindi il lavoro di analisi c’è ma non semplicemente per ‘sapere le cose’ ma per amarle. Sapere perché sono successe certe cose nella vita dei ragazzi serve ad amarle, apprezzarle e perdonare gli altri e se stessi e questo cambia davvero la vita…”.
Mentre parla Silvio Cattarina vede dalla finestra un ragazzo allontanarsi per un permesso e gli urla, strappandogli un sorriso: ‘Mi raccomando torna! Abbiamo bisogno di te qua, non lasciarci soli!’.
“Un ragazzo l’ha detto chiaramente una volta: noi sappiamo di essere nati in famiglie con problemi ma il punto era che noi eravamo lasciati in disparte, nessuno chiedeva il nostro parere; nessuno ci rivolgeva la parola. La domanda del nostro cuore è sempre stata grande ma nessuno mai che ci illuminasse’. Non è tanto drammatica la separazione dei genitori, il papà che mena la mamma o che fa avanti-indietro dal carcere; è drammatico non conoscere il senso e il perché delle cose. Manca loro qualcuno che si accosti e li aiuti a capire e abbracciare le cose. Una volta un ragazzo me l’ha detto esplicitamente: ‘Oggi arriva mio papà a parlarti, non credere a tutto quello che ti dice perché lui spiega i ‘casini’ che ho fatto io ascrivendoli al fatto che li aveva fatti anche lui prima di me. Non è così: certo anch’io avrei preferito avere un padre che non fosse andato in carcere, il problema era che lui non è mai stato una ‘presenza’; non è mai stato uno sprone, non ha mai scommesso su di me’. Quindi ai ragazzi noi facciamo semplicemente un ‘invito’ che letteralmente, significa ‘chiamato in-vita’, diamo ai ragazzi ‘entusiasmo’ e anche qui, la parola dal greco illumina: ‘essere dentro Dio’. Certamente i ragazzi hanno il cuore che sanguina ma non in primo luogo per il papà violento o per la mamma che scappa con un altro, ma per il fatto che pensano di non essere importanti. Così come sto parlando con te, parlo ai ragazzi. Certo, il metodo è fatto di tante altre cose: severità, precisione, nelle assemblee il non parlarsi sopra ma uno per volta, punizioni se non si comportano bene; ci teniamo che si vestano adeguatamente, che abbiano cura di se stessi e che si trattino bene fra loro e che ciascuno non faccia quello che vuole e gli viene in mente, come succede oggi in tanti posti e purtroppo anche in tante scuole dove vado spesso a parlare della mia attività”.
Le regole vengono accolte volentieri?
“All’inizio gliele spieghiamo: se venite qui dovete sapere che esistono regole che vanno rispettate, all’inizio si porta naturalmente un po’ di pazienza ma poi diciamo ai ragazzi che se non hanno intenzione di adeguarsi se ne vadano pure a casa. E sono regole anche abbastanza dure. All’inizio togliamo tutto: il cellulare, i piercing, la morosa. Alcuni di loro hanno commesso reati anche gravi e bisogna verificare che abbiano davvero voglia di percorrere una strada di rivisitazione, ripensamento e cambiamento della loro vita. Abbiamo responsabilità verso le istituzioni che ci affidano questi ragazzi. Ma anche la severità non è fine a se stessa: la vita sarà generosa soprattutto con chi ha patito e sofferto tanto”.
Ci sono differenze tra la tua comunità e altri tipi di opere, per esempio San Patrignano o quelle guidate da preti, come la Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi?
“Ogni tipo di comunità ha aspetti positivi, chi giudica è solo Dio. Tutte fanno bene e hanno un metodo e un’inclinazione particolare che dipendono da chi le ha fondate e le guida ora e dalla loro storia, dai ragazzi che prendono e dalla loro età, penso però che la vera grande questione, come in ogni relazione sia che chi guida queste strutture leghi a se stesso o rimandi ad altro. Anche i nostri genitori che ci hanno tirato su ‘benino’ lo hanno fatto rimandando ad ‘altro’, loro in particolare non ci rimandavano a se stessi ma a Dio. Per spiegare questo ai ragazzi racconto della storia di Paolo e Francesca nel castello di Gradara, dove la loro tresca fu scoperta e per questo furono uccisi. Dante li mette all’inferno non perché hanno commesso un grave peccato ma perché ‘hanno sperato in troppo poco’. Se leghi le persone a te stesso li fai sperare in quella ‘poca cosa’ che siamo tutti. Provoco sempre i ragazzi che aiutiamo dicendo loro che noi siamo poveracci come loro e che se noi dessimo solo noi stessi loro dovrebbero alzare i tacchi e andarsene”.
Perché i giovani d’oggi si sballano e sembrano così fragili?
“Perché non avvertono che qualcuno li chiama, li in-vita. Se tu oggi arrivando qua non mi avessi trovato ti saresti arrabbiato. O se facessi 400 chilometri per nulla, che ti capita? Il minimo che t’arrabbi come una bestia. Così ai ragazzi che arrivano qui io dico sempre: se pensate che al mondo non ci sia nessuno che vi chiami per nome o che vi abbia sempre atteso, tornate a drogarvi. Perlomeno questo è quello che dico all’inizio ma alla fine del percorso di recupero (del quale in genere sono molto contenti) io ribalto la questione dicendo: ‘Ora non penserete che il ‘buono’ della vita sia solo l’Imprevisto’ e li invito ad accogliere tutto della loro vita, anche il male e la sofferenza. Quindi il recupero è questo, il ritrovare il senso di tutta la vita. Così come il termine ‘comunità’ (è una mia scoperta recente) indica non lo ‘stare insieme’ come tutti pensano, il reggersi e correggersi insieme ma ‘davanti ad un dono’ (cum munus, in latino). Ecco, s’è c’è il dono siamo davvero felici ma se la comunità è solo ‘stare insieme’, meglio stare da soli”.
Quanti sono i ‘casi’ che vanno a buon fine e come avviene il reinserimento?
“Per chi compie l’intero percorso in almeno 8 su 10 si raggiunge l’obiettivo mentre per il reinserimento sociale e lavorativo ci danno una mano imprenditori ed amici che già ci aiutano nella normale attività ed in genere noi abbiamo un buon rapporto con le istituzioni cittadine e statali. Io alle istituzione non chiedo favori, dico sempre che ci mettano alla prova e non che si chiuda un occhio per il passato burrascoso di questi ragazzi. Non si tratta di favoritismi: i patti sono chiari, bisogna sapere lavorare e impegnarsi, almeno come gli altri“.
Cosa pensi delle chiusure delle discoteche dopo alcuni casi di morte per overdose o dei provvedimenti proibizionisti in genere?
“Qualsiasi segno che si dà contro un certo ‘andazzo’ è efficace. Penso abbiano fatto bene a chiudere il Cocoricò per dare un segno. Forse bisognerebbe andare oltre e stoppare questo esodo di dimensioni bibliche e oceaniche che si verifica ogni weekend, di giovani che si muovono alla ricerca dell’evasione e dello stordimento collettivo. Ho visto in qualche viaggio della domenica mattina schiere di giovani penzolanti e inebetiti vagare ai bordi delle strade e negli autogrill che vomitano. Ma io dico che anche in certe curve degli stadi il bisogno di ‘sviluppare violenza’ e l’aggressività vanno fermate. Lo sport usato per esprimere violenza e aggressività è qualcosa di terribile. Tutto quello che si fa per arginare questa concezione, anche le chiusure dei locali e provvedimenti severi, vanno condivisi.”
Articolo pubblicato su Rimini 2.0

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