Ciò che conta è lo stupore

30Giorni regala ai suoi lettori il libro che raccoglie articoli ed interviste su Charles Péguy. Pubblichiamo la presentazione del libro che don Giacomo Tantardini ha fatto a Nova Siri (Mt) l’11 agosto 2001
di don Giacomo Tantardini 

Queste pagine sono illustrate da alcune fotografie di Elio Ciol degli anni Sessanta e da immagini delle Ninfee di Claude Monet. Alle Ninfee di Monet, Péguy accenna in Véronique: «E allora te lo dico: La prima sarà la migliore, perché non sa, perché è ancora tutta piena di stupore […]. È tutto un problema di genio, anzi, tutto il suo problema temporale è forse là: guadagnare, se si può, [...] ma essenzialmente non perdere in stupore e novità, non perdere il fiore, se è mai possibile che non si perda neanche un atomo di stupore. È la prima che conta. È lo stupore che conta»

Queste pagine sono illustrate da alcune fotografie di Elio Ciol degli anni Sessanta e da immagini delle Ninfee di Claude Monet. Alle Ninfee di Monet, Péguy accenna in Véronique: «E allora te lo dico: La prima sarà la migliore, perché non sa, perché è ancora tutta piena di stupore […]. È tutto un problema di genio, anzi, tutto il suo problema temporale è forse là: guadagnare, se si può, [...] ma essenzialmente non perdere in stupore e novità, non perdere il fiore, se è mai possibile che non si perda neanche un atomo di stupore. È la prima che conta. È lo stupore che conta»
Prima al bar dicevo che ero indeciso se parlare di Péguy o se parlare di noi. Ma credo che la cosa più… non solo più semplice ma più vera è che si può parlare di Péguy solo parlando di quel presente per cui siamo qui, di quel presente di grazia per cui siamo qui; e allora parleremo soprattutto di noi.
E per parlare di noi vorrei iniziare da un articolo scritto da Lucio Brunelli pubblicato in questo libro1 e intitolato Invito alla lettura di Péguy.
Parto da qui perché l’articolo, pubblicato in origine da 30Giorni, è stato scritto nell’agosto-settembre 19923.
Lucio in questo articolo dice un’unica cosa, e cioè che Péguy si era accorto, all’inizio del secolo, di quello che nell’esperienza nostra è così evidente. Si era accorto che le parole cristiane, che la ricchezza della Tradizione cristiana, che i contenuti cristiani, veri, reali, non incontravano più il cuore dell’uomo. Era un passato che non riguardava l’uomo.
Il cristianesimo è un passato che non riguarda l’uomo di oggi. Questa era l’osservazione da cui partiva quell’articolo. E si diceva che Péguy aveva intuito che occorreva che lo stesso stupore dell’inizio, lo stesso stupore capitato a Giovanni e Andrea, i primi due che lo hanno incontrato, i primi due discepoli che lo hanno incontrato quel pomeriggio («erano le quattro del pomeriggio», dice il Vangelo di Giovanni ricordando quel primo incontro), occorreva che lo stupore dell’inizio riaccadesse, che lo stupore dell’incontro riaccadesse: così quel passato si rende presente.
Vi erano in questo primo articolo, come dire, alcune intuizioni, che per me, allora, non erano così evidenti. La prima è quella che Péguy descrive così: «Abbiamo il dolore di vedere mondi interi, umanità intere vivere e prosperare dopo Gesù senza Gesù»4. La prima intuizione è che il mondo prospera, senza Gesù. Il mondo senza Gesù non solo vive, ma prospera. Non è vero che il mondo è sazio e disperato, il mondo prospera, senza il cristianesimo.
Questa è una intuizione fondamentale di Péguy, perché toglie ai cristiani la presunzione di dire che gli altri sono disperati. Gli altri, dice Péguy, prosperano senza Gesù. Non sanno che cosa sia, è una cosa che non li riguarda. Ma non sono disperati. Guardatevi attorno, non mi sembra che in vacanza quest’anno la gente sia disperata. E questo sguardo è importante, se no non si è realisti, se no, comunque, non si parte da uno stupore, ma da un risentimento. Se no, è il segno che non si è contenti noi. Se accusiamo gli altri di essere disperati è il segno che non siamo contenti noi; che noi, in fondo in fondo, siamo risentiti; che noi, in fondo in fondo, invidiamo gli altri.
Péguy con dolore, senza risentimento, constata che il mondo vive e prospera dopo Gesù senza Gesù. Un dolore così nasce dalla carità: «Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me». Queste parole di Teresa di Gesù Bambino non si dimenticano più.
Péguy constata che si vive tranquillamente senza Gesù Cristo. È vero, è vero, come dice san Paolo, che «senza Cristo si è senza speranza in questo mondo» (Ef 2,12)ma non avendoLo mai incontrato, essendo un passato che non riguarda, se uno non conosce per esperienza, se uno non ha mai incontrato questa speranza, non può neppure essere disperato.
Questo nel ’92 non mi era evidente. Adesso mi è evidente, e sono grato al Signore, per la “vicenda” del risentimento. In fondo in fondo, quando si dice che i non cristiani sono sazi e disperati li si invidia.
La seconda intuizione, che era presente allora ma che non era chiarita, è che la scristianizzazione – cioè il fatto che il cristianesimo è un passato che non riguarda l’uomo di oggi, che non riguarda i ragazzi che passano per la strada, che questa sera magari si divertiranno ballando con i canti della festa dei giovani – viene, dice Péguy, tutta dai chierici5.
La scristianizzazione viene tutta dai chierici. Non viene dal mondo, non viene né dal marxismo né di per sé neppure dall’idealismo; viene tutta dai chierici. Péguy non accusa il mondo. Péguy non porta rancore nei confronti del mondo. Péguy vive con simpatia il mondo, guarda il mondo con simpatia. E guarda con simpatia (con simpatia) quello che in questo mondo, che non ha conosciuto e che non conosce Gesù, quello che in questo mondo di buono c’è, di buono ci può essere.
La scristianizzazione viene tutta dai chierici. Non viene dai nemici della Chiesa, non viene dal relativismo e non viene dall’edonismo. Insomma non viene dal mondo.
La terza intuizione è che la scristianizzazione, dice Péguy, nasce da un errore di mistica6.
Perché viene dai chierici? Péguy dice che viene dai chierici anche per una dinamica di potere7, ma non è questo il cuore della vicenda. L’autorità ecclesiastica può pretendere il potere, ma non è questo il cuore della vicenda. (Il potere nel mondo di per sé è una cosa buona, anche perché per ottenerlo e per viverlo occorre tener presente tutti i fattori. Il potere è la cosa più precaria di questo mondo, quindi per ottenerlo e per trattenerlo bisogna usare tutta la ragione dell’uomo.) Essendo poveri peccatori come tutti noi, i papi, i vescovi, i preti hanno tutti le tentazioni di tutti.
Il cuore della vicenda, dice Péguy, è un errore di mistica, cioè (ed è l’espressione forse più chiara) «tolgono, più di ogni mistero, il mistero e l’operare della grazia»8.
Tolgono il mistero, perché la sorgente non è nostra, la sorgente sgorga dal Mistero, la sorgente è misteriosa; ma l’effetto, l’effetto è umanissimo. Il mistero e l’operare della grazia: l’effetto è così umano, dice Péguy, che se non si vede la grazia nel tempo, se non si vede la grazia nella carne, se non si vede la grazia nell’umano, non si sa che cosa sia. Non si sa che cosa sia; anche se uno conosce le parole cristiane, non sa che cosa sia, non sa che cosa sia il contenuto delle parole che dice.
Soprattutto tolgono il mistero e l’operare della grazia. Non hanno mai incontrato la grazia, cioè l’attrattiva Gesù, non l’hanno mai incontrata nel sensibile. Non l’hanno mai vista, non sono stati mai sensibilmente attratti da quella Presenza. Sensibilmente. L’accusa che pure l’amico Maritain gli faceva: «Solo il sensibile lo tocca»9. Perché per lui, diceva, la fede di un carbonaio può essere più grande che la fede di san Tommaso d’Aquino10. Ed è proprio così. Solo il sensibile lo tocca.
Questa era, come dire, la prima cosa che volevo dire. Quell’articolo di Lucio conteneva questa cosa giustissima, verissima, e cioè che occorreva che l’inizio riaccadesse. Un nuovo inizio11. E in nuce conteneva le intuizioni che ho detto. Ma in nuce soltanto. Perché le intuizioni che ho detto sono state evidenti negli anni dopo il ’92, negli anni che sono seguiti.
Se vi è possibile, acquistate l’ultimo numero di 30Giorni, anche per un articolo molto bello di Massimo Borghesi cui poi accennerò. Ma acquistatelo anche per altri due articoli. Uno riporta delle lettere che il giovanissimo monsignor Montini scriveva a don Orione per venire incontro ad alcuni preti che erano in difficoltà. E lo abbiamo giustamente intitolato Lettere di misericordia12. Il secondo è una omelia di papa Luciani, prima di diventare papa, quando era ancora patriarca di Venezia, in cui parla di Pietro peccatore. E dice che, dopo Pietro, i papi, i vescovi, i sacerdoti sarebbero stati dei poveri peccatori e si sarebbe dovuto compatirli13.
Compassione.Misericordia. Perché senza quella attrattiva nel sensibile, un uomo corre dietro ad altre attrattive. È inevitabile alla lunga che corra dietro ad altre attrattive che non corrispondono al suo cuore. È inevitabile che si accontenti. Se quella attrattiva non è presente, non serve dire che le altre attrattive non corrispondono al cuore. Il padre del figliol prodigo ha diviso i beni, lo ha lasciato andare, non gli ha fatto discorsi. Ha atteso in silenzio. Come è divina questa attesa, è così divina che solo il Mistero, solo la gratuità del Mistero può attendere in silenzio aspettando soltanto.

Le ninfee di Monet

La seconda cosa che volevo dire è che, se non c’è questa attrattiva, Péguy dice che «non c’è più nulla»14. Non c’è più nulla. Di duemila anni di cristianesimo non rimane nulla. Di duemila anni di cristianesimo, se non c’è questa attrattiva, non c’è nulla.
Ma questo nulla, Péguy dice che si tenta di mascherarlo.
Cosa rimane senza quella attrattiva? Niente rimane, di reale niente.
Eppure qualcosa rimane, perché duemila anni lasciano delle tracce. Duemila anni di cristianesimo non si cancellano in un istante.
Nulla di reale dice Péguy, però qualcosa rimane. Questo qualcosa di non reale che rimane Péguy lo descrive attraverso due immagini. Primo, una scuola di insegnamento. Il cristianesimo ridotto a materia di insegnamento15. Rimane gente che parla del cristianesimo, che parla del cristianesimo e che magari dice che gli altri sono disperati. Possono essere più disperati loro che non gli altri. Una scuola di insegnamento.
Secondo, delleparodie infami16. Parodie infami. Queste sono le due cose che Péguy dice che rimangono nel nulla, quando quell’attrattiva nel sensibile non accade. Rimane che ci si incontra a parlare del cristianesimo, eccellente materia per discorsi, e rimangono delle parodie infami. Dei tentativi di inventarsi quello che non c’è. Dei tentativi di inventarsi quello che non c’è, più o meno scimmiottando il mondo.
Quello che abbiamo accennato fino ad ora, in positivo era tutto scritto in un appunto di Tommaso17 alcuni mesi, alcune settimane prima di morire il 20 luglio 1993.
«Dopo vent’anni, mi portano dove non vorrei,
nei luoghi dove tutto è incominciato e dove tu rimani.
C’è una sola esperienza che col tempo cresce
mentre le altre più belle si allontanano.
Non mi aspettavo da vecchio di stupirmi
quando sto con te a mangiare o parliamo di tutto
o ti vedo stare con gli amici più giovani
o giocare nel cortile con un bambino…
O giovinezza non ti ho perduta…!
Se qualcosa riaccade, oggi,
se gli occhi che faticano a seguire le lettere,
pure scorgono volti e gesti,
se non è il ricordo a rendere amici,
ma una cosa nuova e viva che sta accadendo ora,
o giovinezza, non ti ho perduta…».
La terza cosa che volevo dire è che non basta che quella attrattiva sia accaduta, che non basta che quell’incontro sia avvenuto, se non è presente.
Se non è presente, non si può vivere del passato. L’incontro diventa una bestemmia, se non è presente. Una nostalgia, ma alla lunga una bestemmia, se non è presente. Provate a pensare alla Maddalena se non lo avesse visto risorto quel mattino di Pasqua. Non si può vivere del passato. Si vive solo di qualcosa che sta accadendo. Solo di qualcosa che sta accadendo. Questi anni dal ’93 in poi sono stati… come se fossimo condotti per mano in questa inermità. E l’uomo è condotto a questo riconoscimento quando riaccade. Ma è condotto a questa inermità anche, per usare l’immagine bellissima di un cardinale amico, il cardinale Danneels18, nel tempo dell’esilio, anche attraversando l’esilio.
È condotto ad accorgersi che non si può vivere del passato, che non si può vivere delle cose belle passate, ma che si vive solo di qualcosa che accade, che accade nel presente. Che non si può vivere di una attrattiva passata (diventa spunto di nostalgia e ultimamente di bestemmia, oppure di discorsi e di parodie infami). L’incontro diventa spunto di discorsi e di parodie infami. E non c’è nessuna differenza tra il passato di duemila anni e il passato di un istante prima. Non c’è nessuna differenza, il passato è passato.
Leggete gli articoli di questo libro tenendo presente soprattutto le date, perché è il tempo che è importante. 
Nel tempo dell’esilio che cosa viene donato? Tre cose questi anni hanno donato. Per usare le parole di Péguy, la prima: il catechismo della parrocchia natale, quello dei bambini piccoli19. La prima cosa è che questa inermità rende care, care come non mai, le cose più semplici della Tradizione della Chiesa. Questo nel ’92 non lo avrei detto così. Io non sono mai stato così grato, per esempio, per il mio seminario; ed è una delle cose per cui siamo così vicini Giussani ed io quando diciamo il mio seminarioIl mio seminario: una cosa dell’altro mondo, quegli anni, in questo mondo.

Un altro quadro di Monet che ha per oggetto le ninfee

Péguy diceva il catechismo della parrocchia natale, quello dei bambini piccoli. Quello, per esempio, che 30Giorni ha pubblicato qualche mese fa20. Quello dei bambini piccoli.
Péguy dice che «nel meccanismo della salvezza, l’Ave Maria è l’estremo soccorso. Con questo non ci si può perdere»21.'La seconda cosa è la preghiera, nel senso delle formule di preghiera. «Ti guarderai bene dall’inventar preghiere, ripeterai le parole dei poveri di spirito e aspetterai»22. Se è un’attrattiva che accade, l’uomo può solo aspettare. La modalità per aspettare, la modalità sono le formule più semplici della preghiera cristiana. Nel meccanismo della salvezza, l’Ave Maria è l’estremo soccorso. Con questo non ci si può perdere.
E la terza… La dico anche perché mi ha colpito una frase che agli esercizi spirituali dei “Memores Domini” un vescovo ha detto a tavola: la stagione dei militanti è definitivamente passata. Péguy stesso è stato condotto dalla esperienza della vita a questo riconoscimento. Il cardinale Etchegaray, con intelligenza di fede circa il momento attuale, ha scritto nella prefazione di questo libro: «“Un cristiano della parrocchia”: ecco, in definitiva, ciò che Péguy ha voluto semplicemente essere»23. Nel ’92 non avrei capito il contenuto, come dire, stupendo, attuale che una espressione così conteneva: «un cristiano della parrocchia». Un cristiano della parrocchia, che ama il catechismo che ha studiato da bambino, che recita le Ave Marie del Santo Rosario, perché il resto, tutto, accade per grazia.
Aggiungo due osservazioni.
La prima è contenuta in un brano dell’articolo di 30Giorni dal titolo: La “romanità” e l’Europa24 (si tratta di una recensione di Massimo Borghesi a due libri, uno di Padoa-Schioppa, che è uno dei commissari della Banca europea, e l’altro di un francese, Rémi Brague, entrambi sull’Europa).
Soprattutto il secondo libro parla della grandezza di Roma e dice in una espressione (che è l’espressione che può sintetizzare quello che ho detto finora): «È romana l’esperienza del cominciare come (ri)cominciare»25. Ed è umana l’esperienza che ci si stupisce per un nuovo inizio come e più che per il primo inizio. Borghesi cita Brague: «Nell’ambito religioso, la fede non produce effetti che là dove essa resta fede, e non calcolo»26. La fede non produce effetti che là dove essa resta fede. Fede… gratia facit fidem. Quell’attrattiva desta il riconoscimento, quell’attrattiva. E aggiunge san Tommaso d’Aquino: «La grazia crea la fede non solo quando la fede inizia in una persona [il primo incontro], ma in ogni momento in cui la fede permane»27È sempre quell’attrattiva, sempre l’attrattiva Gesù.
«La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo»28. «Persone che credevano in Cristo», cioè che erano attratte da quella Presenza, non a persone che avevano il problema di diffondere il cristianesimo. È verissima questa cosa. Altrimenti si porta rancore al mondo. Non ci si commuove dello sguardo del padre e della madre che non sanno chi è Gesù, eppure guardano con commozione il bambino che diventa grande. E non si può rovinare quello sguardo facendo un discorso. È solo un incontro, quell’attrattiva, che rende quello sguardo più commosso. Altrimenti, dice Péguy, credono di essere di Dio perché non sono di nessuno e credono di amare Dio perché non amano niente29.
«Queste persone erano dei cristiani e non, come potremmo definirli, dei “cristianisti”. Un bell’esempio di ciò è fornito da papa Gregorio Magno. La sua riforma ha gettato le basi del Medioevo europeo. Ora, egli credeva che la fine del mondo fosse prossima»30. È così. Questa mattina sono andato a recitare il breviario al cimitero davanti alla tomba di Tommaso e alla fine ho aperto il breviario di Tommaso che era lì appoggiato. E nel breviario di Tommaso (c’era ancora il segno del giorno, o del giorno prima, in cui è morto) c’era il brano di san Paolo della seconda lettera ai Corinzi in cui diceva che mentre questo corpo si va disfacendo viene preparata un’abitazione eterna nel cielo, ed il titolo del brano era: Una abitazione eterna nel cielo.
«Un bell’esempio di ciò è fornito da papa Gregorio Magno. […] Ora, egli credeva che la fine del mondo fosse prossima. E questa, a sua avviso, doveva comunque privare ogni “civiltà cristiana” dello spazio in cui dispiegarsi»31. Se la fine del mondo è prossima, se la morte è prossima… perché poi l’unica cosa decisiva è salvare l’anima, ed è il dono più grande. È dogma di fede che nessuno può essere sicuro della salvezza dell’anima, è precaria la vita cristiana, e la perseveranza finale è dono. Si può avere la certezza del bambino, non la sicurezza empia di chi possiede. «Ciò di cui ha gettato le fondamenta, e che doveva durare tutto un millennio, non era a suo avviso che un ordine di marcia provvisorio, un modo per sistemare una casa che si sta per lasciare»32.
E un’ultima cosa. Quello che ho tentato di dire è tutto nei giudizi che, soprattutto in quest’ultimo anno e mezzo, don Giussani ha dato. Da quando ha detto che «il popolo cristiano da secoli è stato benedetto e confermato nell’essere proteso alla salvezza [benedetto e confermato in quell’attesa, in quella domanda], io credo, specialmente da una cosa: il Santo Rosario»33.
Non si può leggere una cosa così e non intuire che cambia tutto… cambia la prospettiva34. Non ha detto: specialmente “dai movimenti ecclesiali”, per esempio, ma dalla recita del Santo Rosario.
E ancora: «Abbiate il gusto delle giaculatorie. La giaculatoria che vi raccomando per la vostra sanità è Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam»35. «Questa giaculatoria Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam è come un appoggio psicologicamente chiaro»36.
Così qualche giorno fa, alla fine degli esercizi dei “Memores Domini”, ha parlato ancora una volta della giaculatoria, «che è riassuntiva di tutto quanto noi abbiamo cercato di credere, di esprimere, di comunicare, perché è la formula che riassume tutto il dogma cristiano così come la Chiesa l’ha sempre vissuto: Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam». Vieni o Santo Spirito, vieni attraverso la Madonna. «Sarete stati colpiti da tante cose, ma la colpa non è mai sradicata nella nostra coscienza». Questa cosa, per esempio, nel ’92 non mi sarebbe stata così lietamente, così pacificamente chiara. L’amore dell’uomo, diceva la lettura del breviario di oggi, è come le nubi del mattino, che dopo un istante il vento può spazzare via. Non si può non accorgersi di questa assoluta precarietà37. «…La colpa non è mai sradicata nella nostra coscienza, l’affermazione del vero non è mai rinnovata se tutta l’anima non cerchi di far accadere quello che il grido della tradizione cristiana ci fa ridire: Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam». È tutto qui. Questi anni ci sono stati dati come la cosa più preziosa e più grande, perché tutto diventasse così semplice e così facile38. Tutto. Allora la colpa è sradicata, l’affermazione del vero è rinnovata. Non come discorso. «Per dire “è avvenuto” mi metto in ginocchio» – è un’altra frase di Giussani – «a recitare: Salve Regina, Ave Regina Caelorum, Ave Domina Angelorum, Iesu Dulcis Memoria»39. È questa l’affermazione della verità. Io, dice Péguy, darei tutta la Summa theologica di san Tommaso d’Aquino per la Salve Regina.
…Non cerchi di far accadere. E siccome l’accadere non dipende da noi, il cercare con tutta l’anima di far accadere quell’attrattiva presente non può che essere il grido, il grido di una domanda. Non può che essere: «Vieni». «Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam».
Finisco leggendo alcuni versi di una poesia di Péguy40. Gli ultimi anni della vita di Péguy sono attraversati dal pellegrinaggio a Chartres, innanzitutto per chiedere la grazia della salute per i suoi figli. Aveva tre bambini. L’ultimo, il quarto, gli è nato dopo la sua morte (lui è morto il 5 settembre 1914 e l’ultimo suo figlio gli è nato nel febbraio del 1915). I primi tre bambini erano ammalati, allora ha fatto il pellegrinaggio a Chartres41.
La Madonna ha accompagnato con grazie semplici così gli ultimi anni della sua vita42:
«Ecco il luogo del mondo dove tutto diviene facile,
Il rimpianto, la partenza e anche l’avvenimento,
E l’addio temporaneo e la separazione,
Il solo angolo della terra ove tutto si fa docile […].
Ciò che dappertutto altrove è un’aspra lotta
E una lama da macello tesa alla gola,
Ciò che dappertutto altrove è la potatura e l’innesto
Qui non è che il fiore e il frutto del pesco […].
Ciò che dappertutto altrove è la noiosa abitudine
Seduta accanto al fuoco, le mani sotto il mento,
Ciò che dappertutto altrove è solitudine
Qui non è che un vivace e forte germoglio […].
Ce ne han dette tante, Regina degli apostoli,
Abbiamo perso il gusto dei discorsi
Non abbiamo più altari se non i vostri
Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice».
«Ce ne han dette tante, Regina degli apostoli,/ Abbiamo perso il gusto dei discorsi/ Non abbiamo più altari se non i vostri./ Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice» [è stato benedetto e confermato, io credo, specialmente da una cosa: il Santo Rosario].
«Non domandiamo niente, rifugio del peccatore,
se non l’ultimo posto nel vostro purgatorio, [perché la perseveranza finale è il dono più grande e così si domanda l’ultimo posto nel vostro purgatorio] per piangere a lungo sulla nostra povera storia,
e contemplare da lontano il vostro giovane splendore».
Articolo pubblicato su: www.30giorni.it

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